Lettera di Paolo Colonnello

Questo è il testo della splendida lettera aperta con cui Paolo Colonnello, noto giornalista de LA STAMPA e scrittore, ha aperto lo spettacolo

Il ristorante dei bambini di strada

Non ricordo il suo nome, o forse non l’ho mai saputo. Lei vendeva sigarette sfuse e gomma da masticare, che teneva in una cassetta di plastica appesa al collo con due cordicelle. Le ciabattine logore, una maglietta verde di due misure più grandi e un elastico a fermarle i lunghi capelli.

Era naturalmente bellissima. Le dita lunghe, i gesti delicati. Avrà avuto 8 anni ma lo sguardo era senza tempo. Uno di quegli sguardi che se ti ci soffermi troppo ti scavano una voragine nell’anima.

È per questo che non li guardiamo mai. Che ci facciamo trapassare dai loro occhi senza sentire nulla, diventando vuoti. Che giriamo la testa dall’altra parte scoprendo improvvisamente di avere una grande fretta.  Ma io quel giorno di 4 anni fa, non avevo dove andare.

È lunga in certi casi la traversata del Mekong sul traghetto per Neak Loeung.

Comprai una sigaretta in cambio di un dollaro.

Lei  sorrise: con un dollaro si può fare un pasto, a volte due, in Cambogia. Io sorrisi: con un dollaro non si compra nemmeno un panino, qui da noi. Lei sorrise di nuovo: con un dollaro avrebbe sfamato anche il suo fratellino, quel giorno. Io sorrisi, ma iniziavo a sentirmi un po’ stupido.

Poi lei sorrise ancora, semplicemente perché ero rimasto lì, a farmi scrutare in tutto il mio imbarazzo occidentale, ad accendermi la sigaretta e ad aspirarla con voluttà, come se fosse aria pura del mattino, la sigaretta più buona della mia vita. Deve avere pensato che fossi davvero buffo, magari un po’ matto: lo sanno anche i bambini che il fumo fa male!

Piano piano arrivarono anche gli altri. Spuntarono da dietro le auto, dai camion pieni di maiali, dai bidoni di bitume, dalle sartie aggrovigliate. Discreti, silenziosi. Dei minuscoli fantasmi. Uno mi fece l’occhiolino. Uno mi prese la mano. Il più piccolo si aggrappò ai pantaloni. Un altro ancora mi porse la sua povera mercanzia. Uno si avvicinò con il fratello cieco. Logori, cenciosi, malati.

Bellissimi.

Li chiamano “chiffoniers” e quando al mattino, ogni mattino del mondo, noi abbiamo bevuto il nostro caffè, programmato la nostra carriera, sistemato a scuola i nostri figli, loro, anche i più piccoli, hanno  lasciato da ore le loro baracche con i tetti di lamiera bucati e sono già a rovistare nelle discariche di Phnom Penh o Battambang o Neak Loeung,  per trovare un avanzo con cui nutrirsi, uno straccio con cui vestirsi, un oggetto da riciclare. Abbandonati a se stessi o radunati in piccole bande pacifiche, le loro famiglie di strada - percorrono chilometri e chilometri con pesi immensi e piccole speranze.

E se va bene, si spingono fino in città, per provare a rivendere gli scarti raccolti ai turisti distratti o ai cambogiani operosi. Se va male, fa lo stesso. Perché bene e male non hanno alcun senso tra i piccoli chiffoniers, ultimi tra gli ultimi, prede del destino, merce di scambio: ha senso un sorriso, magari una carezza. Una coccola.

Un pasto, quello sì ha senso. Chissà, magari ogni tanto anche un bagno, un taglio di capelli, il taglio delle unghie, la visita di un medico, un giocattolo, un pennarello, perfino un’ora davanti alla televisione per i cartoni animati, come succede - dovrebbe succedere - a tutti i bambini del mondo.

Pensate: con 90 centesimi di euro si può ottenere tutto ciò per ogni piccolo chiffonier ogni giorno. 90 centesimi, nemmeno un dollaro. Neanche un pacchetto di sigarette. Un caffè nei nostri bar del centro. Il nulla di certe volgari ricchezze.

È nato con questi budget il “Restaurant des Enfants de la Rue” e quotidianamente riesce a sfamare circa 150 bambini dagli 1 ai 13-14 anni.  Ha aperto nel febbraio del 2010 e piano piano è diventato scuola, rifugio, infermeria. È riuscito a strappare dalla strada e avviare alla scuola pubblica oltre 100 bambini e da quest’anno un medico due volte al mese visita tutti i piccoli che vi fanno sosta. È una piccola oasi, una zattera cui aggrapparsi per non morire lungo la strada dove ogni anno centinaia di bambini scompaiono prede di certo turismo sessuale o soltanto vittime dell’indifferenza. 

Sapete, la Regione Piemonte non ha voluto dare il patrocinio a questa iniziativa perché, scrivono, non hanno la possibilità di controllare la destinazione dei soldi che questa sera verranno raccolti. C’è una legge, dicono, che impedisce di prendersi certe responsabilità. Nel Paese delle illegalità, quando dobbiamo rispettare le leggi che impediscono la generosità, diventiamo imbattibili.

Ma c’è da capirli. È faticoso guardare, interessarsi. Eppure sarebbe bastata un po’ di fiducia, magari un colpo di telefono al Ministero degli Interni cambogiano, che ha deciso di dare un riconoscimento ufficiale al Ristorante dei bambini da strada. Con poco impegno avrebbero scoperto che esiste già chi ha deciso di occuparsi degli chiffoniers e lo fa da anni. È un signore con i capelli bianchi, alto e con gli occhiali, un tipo instancabile, un ex schiavo dei campi di Pol Pot, un ex maestro elementare che  hanno soprannominato “l’angelo della strada”. Si chiama Chivv e quel giorno ormai lontano, mi stava guardando seduto a poppa, fingendo di ammirare il fiume.

È lunga, certe volte, la traversata del Mekong.

Si può perfino riuscire ad avere un pensiero, un moto dell’anima, una riflessione. Io avrei voluto che non finisse mai, mi trovavo bene tra quei piccoli chiffoniers che continuavano a guardarmi e a sorridermi parlandomi khmer, come se davvero li potessi capire. Invece il viaggio, come sempre, finì; la lunga chiatta aprì le paratie di prua e dovemmo scendere.

I bambini di strada giunsero le mani e fecero il loro piccolo inchino. Un gesto semplice, prezioso. Inimitabile. Ci ho provato tante volte a raggiungere quell’intensità nei miei goffi movimenti, ma non ci sono mai riuscito.

Non c’è nulla di cerimonioso nel ringraziamento di un bambino. Nulla di superfluo.  È già grande così, il “grazie” di un bambino.

Alcuni si gettarono in acqua, altri sgattaiolarono dietro i camion e le auto, perché nemmeno sui traghetti scassati che navigano il Mekong li vogliono vedere quei piccoli cenciosi che chiedono elemosina e disturbano i turisti. E quel divieto, per i bambini, è diventato un gioco. Chiedere soldi, è un gioco. Strisciare lungo i muri delle case per non farsi vedere, è un gioco. Rovistare nella spazzatura, è un gioco.

Perché se non fosse gioco sarebbe tragedia. E i nostri stomaci si dovrebbero ribaltare, le nostre anime vergognare. Ma nella loro infinita saggezza i bambini sanno perdonare le nostre vigliaccherie, i nostri abbandoni, l’indifferenza. E li trasformano in gioco, nascondendo il dolore e le speranze.  

La piccola venditrice di sigarette abbassò gli occhi, io velai i miei, era arrivato il momento dell’addio: per un dollaro lei e gli altri bambini mi avevano regalato un’illuminazione. La possibilità di stare in mezzo a loro e di guardarsi, senza parole, come si fa quando ci si vuole comprendere a fondo per non lasciarsi mai.

Li ritrovai tutti più tardi nel piccolo ristorante dei bambini di strada aperto a Neak Loeung, un primo esperimento voluto da Chivv, “le grand père” degli chiffoniers. Diventò una festa.

La bambina dai modi gentili quando mi vide ebbe un sussulto, si fece seria, mi venne incontro e mi restituì il suo dollaro. Non ne volle sapere: se ero arrivato fino a lì, se ero entrato nel rifugio degli chiffoniers insieme ai miei figli e a mia moglie, non ero più un turista buffo, un occidentale distratto. Ero un amico. Uno di loro.

     

E io ce l’ho qua, lo tengo sempre in tasca quel dollaro, è il prezzo della mia felicità.

 

Paolo Colonnello